Stai tornando dalla spiaggia ed hai ancora il sole impresso sulla pelle.
La violenza dell’aria che entra dal finestrino aperto ti dà sia brivido sia sollievo.

Sei sulla SP94, a Porto Cervo, e le curve sinuose dell’isola portano l’auto sempre più in alto, su un asfalto che non ha mai visto una buca.
Stai bene, e starai ancora meglio: di fronte al golfo di Cala di Volpe c’è un ristorantino minuscolo affacciato sull’abisso del mare. Una valle di ginepri, profumi, nuvole, azzurri profondissimi si apre al di sotto.
Ovviamente non puoi far altro che accostare e tentare il parcheggio fra mille persone che hanno avuto la stessa tua idea, cioè guardare l’orrido, abbracciare le distanze, camminare sull’orlo del belvedere con il sottofondo dei brindisi e il cicaleccio dei commensali.








Le auto passano dietro di te sulla strada che quasi si muove con loro, il chiosco è frenetico, la valle immobile, il mare in fiamme per il sole che lo acceca.
Ti vien voglia di avere le ali, perché se le avessi potresti staccarti e vibrare come un gabbiano e restare in silenzio. Eppure il silenzio c’è già, là da qualche parte, e ti pare di sentirlo: un silenzio che precipita dritto verso la macchia e poi risale diretto alla costa, gira l’angolo, s’incastra fra gli scogli e galleggia come un tappo di bottiglia.
E se non vuoi andartene, comunque te ne devi andare, perché sai che qualcuno deve parcheggiare e buttarsi di sotto come hai fatto tu.
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